L’etica hacker

L’etica hacker

27 Novembre 2020 1 Di Fausto Pitzalis
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La parola hacker ha indubbiamente avuto successo: negli ultimi decenni è utilizzata in misura
crescente per descrivere uno spazio culturale nel quale agiscono persone e valori etici, a volte
così distanti tra loro che è legittimo domandarsi se esista un’etica hacker.
Certamente esistono diverse etiche hacker nel senso sociale del termine (etica sulla quale si
fonda un gruppo di persone) che hanno tratti in comune ma che possono divergere anche
radicalmente. Socializzazione e libertà dell’informazione e della conoscenza sono il denominatore
comune delle diverse etiche hacker: un insieme che mette in comunicazione gruppi disomogenei.
Questi valori comuni sono figli di idee e valori molto più antichi della cultura hacker, che dipendono
da caratteri profondamente radicati nella natura e nelle culture umane.

In questo articolo si utilizza la nozione di etica nel senso di insieme di norme e valori di un gruppo
di persone, o etica sociale. L’etica sociale di un gruppo costituisce il collante di quel gruppo ed è
una mediazione delle etiche soggettive dei suoi membri, frutto delle dinamiche d’interazione tra i
componenti del gruppo. A volte l’etica sociale di un gruppo prende la forma di un documento
(codice di deontologia, manifesto, o altro); ma i documenti di questo tipo possono non riflettere in
modo accurato l’etica sociale del gruppo al quale si riferiscono, soprattutto quando non cambiano
nel tempo.
La cultura hacker è poliedrica e si evolve nel tempo; è inevitabile che l’etica hacker segua la
stessa sorte. Dalle articolate vicende delle comunità hacker discendono idee diverse su cosa si
debba intendere per etica hacker.

Da comunità diverse, composte da persone diverse, con un background culturale diverso e lontane nel tempo, derivano inevitabilmente insiemi etici (norme e valori) almeno parzialmente diversi.
Per approfondire la nozione di etica hacker nei luoghi in cui la cultura hacker è nata, è utile
iniziare ricordando la Hacking Etiquette (galateo dell’hacking), riprodotta in un cartello presente all’ingresso del Ray and Maria Stata Center del MIT, che riporta undici regole sviluppate dalla comunità hacker studentesca:
1. Sta’ attento: la tua sicurezza, la sicurezza degli altri e la sicurezza di chiunque tu stia hackerando non dovrebbero mai essere compromesse.

  1. Sii sottile: non lasciare alcuna prova che tu sia mai stato lì.
  2. Lascia le cose come le hai trovate, o meglio.
  3. Se trovi qualcosa di rotto, chiama F-IXIT [il numero interno per segnalare problemi alle
    infrastrutture].
  4. Non lasciare danni.
  5. Non rubare nulla.
  6. La forza bruta è l’ultima risorsa degli incompetenti.
  7. Non hackerare sotto l’effetto di alcool o droghe.
  8. Non far cadere oggetti (da un edificio) senza personale di terra.
  9. Non hackerare da solo.
  10. Soprattutto, fa’ uso del tuo buon senso”.
  11. La comunità hacker studentesca del MIT è centrata sugli aspetti goliardici dell’essere hacker
    e svolge attività non necessariamente legate a computer e software. Ma il documento è utile per
    avere contezza del retroterra culturale nel quale prende forma la nozione di hacker più
    specificamente connessa alle tecnologie informatiche.
    Stephen Levy nel suo libro centrato sulle vicende delle prime comunità hacker informatiche
    (Levy, 2002) offre una descrizione dell’etica hacker che ha certamente contribuito a rendere
    popolare l’idea che esista un’etica hacker. Nella prefazione (Levy 2002, 9) così sintetizza l’etica
    hacker: “È una filosofia di socializzazione, di apertura, di decentralizzazione e del mettere le mani
    sulle macchine a qualunque costo, per migliorarle e per migliorare il mondo”.
    Nel secondo capitolo del suo libro (Levy 2002, 34-42) approfondisce i principi dell’etica hacker
    che descrive come segue.
    “L’accesso ai computer – e tutto ciò che potrebbe insegnare qualcosa su come funziona il
    mondo – dev’essere assolutamente illimitato e completo. Dare sempre precedenza all’imperativo
    di metterci su le mani!”; l’hacker deve seguire il suo istinto di correggere i difetti e migliorare le
    cose (computer e software, innanzitutto).
    “Tutta l’informazione deve essere libera”; quando un hacker risolve un difetto o migliora un
    sistema, quella soluzione deve essere a disposizione di tutti.
    “Dubitare dell’autorità. Promuovere il decentramento”; la burocrazia (industriale, governativa
    o universitaria) e qualunque sistema che impedisce l’accesso all’informazione va guardato con
    sospetto.
    “Gli hacker dovranno essere giudicati per il loro operato, e non sulla base di falsi criteri quali
    ceto, età, razza o posizione sociale”; gli hacker sono meritocratici e questo beneficia la comunità
    hacker nel suo complesso.
    “Con un computer puoi creare arte”; un programma non è apprezzato solo per la sua
    funzionalità, ma anche per la sua estetica e, per esempio, la capacità di scrivere un programma
    per svolgere una funzione nel minor numero possibile di righe è ammirata.
    “I computer possono cambiarti la vita in meglio”; gli hacker credono che i computer possono
    migliorare la vita a se stessi e a tutti gli esseri umani.
    The Conscience of an Hacker scritto l’8 gennaio 1986 dal giovane Loyd Blankenship
    (Mentor 1986), poco dopo il suo arresto, indica gli elementi principali dell’etica hacker (socialità,
    rifiuto dell’autorità, uguaglianza, curiosità e accesso all’informazione) e, allo stesso tempo, offre
    spunti per osservare più da vicino l’altro lato della medaglia: il percorso psicologico che può
    avvicinare l’hacker all’atto criminale.
    Il libro di Pekka Himanen (Himanen 2003) ha il merito di arricchire la prospettiva sul tema
    dell’etica hacker (che per l’autore è incentrata su passione, impegno, creatività e gioia nella
    creazione) individuandovi i semi di un’etica del lavoro che sfida l’etica del lavoro protestante. A
    distanza di 20 anni si iniziano a vedere alcuni cambiamenti interessanti alla luce dell’intuizione di
    Himanen. Oggi molte industrie informatiche distribuiscono software libero, usano sistemi per la
    gestione dello sviluppo collaborativo del software pensati da e per le comunità di software libero
    e fanno dell’interazione con le comunità di sviluppatori un obiettivo esplicito. È interessante
    osservare che Steve Balmer, ex CEO di Microsoft, nel 2001 affermava “Linux è un cancro che si
    attacca a tutto ciò che tocca nel senso della proprietà intellettuale” mentre nel 2014 Satya
    Nadella, attuale CEO di Microsoft, dichiarava “Microsoft ama Linux”. È certo che l’industria del
    software ha imparato a lavorare secondo le regole del software libero e ad utilizzarlo per trarne
    profitto, anche se non si può dire che il processo abbia completamente esaurito il suo percorso o
    che l’intuizione di Himanen sia una predizione avverata: se l’etica del lavoro protestante sarà
    superata dall’interazione con l’etica hacker lo potremo giudicare tra un po’ di tempo.
    Eric Raymond, uno dei fondatori dell’Open Source Initiative, collega in modo esplicito l’open
    source e la sua azione alla cultura hacker. In effetti, l’idea di software libero è centrata su scelte
    etiche. Dice Richard M. Stallman: “Il mio lavoro sul software libero è motivato da un obiettivo
    ideale: diffondere la libertà e la cooperazione. Voglio incoraggiare la diffusione del software libero
    sostituendolo al software proprietario che proibisce la cooperazione, e quindi rendere la nostra
    società migliore.”
    È quindi interessante rilevare che lo stesso Stallman rifiuta di collegare il software libero a
    supposti valori etici hacker e contesta l’idea che dei principi etici siano al cuore dell’essere hacker:
    “Concordo con la persona che ha affermato che non esiste un’etica hacker, ma piuttosto
    un’estetica hacker”, dice. Ancora, definisce l’hacking come l’attività di “esplorare i limiti di ciò
    che è possibile in uno spirito di giocosa intelligenza”. La posizione di Stallman è che essere
    hacker non implica necessariamente avere una specifica etica. Pare quindi che Stallman non
    concordi con Raymond quando questi afferma che Stallman abbia la pretesa “di definire e guidare
    la comunità degli hacker con la bandiera del software libero”. È però vero che gruppi di persone
    Ad oggi, la penetrazione del software libero non è invece ugualmente efficace nelle istituzioni pubbliche,
    anche se negli ultimi anni si iniziano a percepire i segni d’un cambiamento in corso. Eric Raymond è anche stato
    editore del Jargon File (vedi http://www.catb.org/jargon/), una raccolta di termini gergali utilizzati da varie
    sottoculture hacker.
    In particolare, nell’articolo How To Become A Hacker, al paragrafo Historical Note: Hacking, Open
    Source, and Free Software, scrive:
    “L’etica e la comunità degli hacker, come li ho descritti qui, precedono di molto l’emergere di Linux dopo
    il 1990; sono stato coinvolto per la prima volta intorno al 1976 e le sue radici sono facilmente rintracciabili
    nei primi anni ’60. Ma prima di Linux, la maggior parte dell’hacking avveniva su sistemi operativi
    proprietari o su una manciata di sistemi nostrani quasi sperimentali come gli ITS del MIT che non
    venivano mai distribuiti al di fuori delle loro nicchie accademiche originali. Mentre c’erano stati alcuni
    tentativi precedenti (pre-Linux) di cambiare questa situazione, il loro impatto era nella migliore delle
    ipotesi molto marginale e limitato alle comunità di veri credenti dedicati che erano minuscole minoranze
    anche all’interno della comunità degli hacker, figuriamoci rispetto al mondo più vasto di software in
    generale.
    Ciò che ora viene chiamato “open source” risale alla comunità degli hacker, ma fino al 1985 era una
    pratica popolare senza nome piuttosto che un movimento consapevole con teorie e manifesti collegati.
    Questa preistoria terminò quando, nel 1985, l’astuto hacker Richard Stallman (“RMS”) tentò di dargli un
    nome: “software libero”. Ma il suo atto di denominazione era anche un atto di rivendicazione; ha
    attaccato un bagaglio ideologico all’etichetta “software libero” che gran parte della comunità di hacker
    esistente non ha mai accettato. Di conseguenza, l’etichetta “software libero” è stata fortemente respinta
    da una sostanziale minoranza della comunità degli hacker (specialmente tra quelli associati a BSD Unix)
    e utilizzata con riserve serie ma silenziose dalla maggior parte del resto (incluso me stesso).” Nell’articolo di Eric Raymond (citato alla nota 22) How To Become A Hacker, al paragrafo Historical Note: Hacking, Open Source, and Free Software, si legge che si definiscono hacker e si riconoscono nel valore della libertà dell’informazione si organizzano
    intorno allo sviluppo di software libero/open source.

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Fausto Pitzalis

Blogger dal 2001, Nativo Digitale, Developer. Da 10 anni mi occupo di IT per una grande Azienda. Lavoro per abbattere il Digital Divide. Visita i miei altri progetti sardiniamobility.com smartworkers.cloud
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